Mi piacerebbe raccontare delle storie.
Non lo faccio più.
Un po’ di tempo fa, ho raccolto delle storie che avevo scritto e le ho pubblicate. Erano particolari, crude, assassine quasi. Quelle storie che ti sono passate in testa, ma non hai mai raccontato. Quei particolari scomodi che a nessuno fa piacere annoverare, ma che provocano quella strana sensazione di piacere e rigetto mentre le leggi.
Perché uno scrittore dovrebbe smettere di scrivere
Come un giovane Arturo Bandini, ho scritto e mandato estratti a diversi editori. Un paio mi hanno risposto positivamente, e ho pubblicato un libro.
Che mi ha fatto male.
Mi ha fatto male perché gli amici non mi hanno supportato.
Mi ha fatto male perché i miei genitori, dopo aver letto il libro, hanno evitato accuratamente l’argomento: d’altronde, più dello stile e della scrittura, conta il contenuto, che non era troppo politicamente corretto.
L’unico commento positivo l’ho ricevuto dalla mia ex, che in una lettera mi riferiva della sua ammirazione perché potevo pubblicare tutto il materiale provocatorio che volevo, senza subirne le conseguenze. Le conseguenze le ho subite eccome, e lei non poteva più aiutarmi, in quanto ex.
Mi ha fatto male perché non ho avuto riscontri positivi. Però mi dico anche: quanti sono gli artisti, o anche semplicemente chiunque sia un minimo creativo, che ricevono un riscontro positivo immediato, o anche nel corso delle loro vite?
Mi viene in mente Van Gogh
Mi viene in mente Van Gogh, di cui ho visitato il museo in Amsterdam poco tempo fa: un immenso edificio di diversi piani al cui ingresso si sussegue un’eterna fila per entrare e visionare le sue opere. Una macchina da soldi oleata e ben salda, costruita sulla vita di una persona sempre sull’orlo – e nel mezzo – della crisi di nervi, senza riconoscimenti mentre in vita, osannato invece dopo la morte per via della moglie del fratello, che promosse le sue opere. L’anello mancante tra la creatività e il riconoscimento nei moderni periodi: un manager!
Gli artisti sono tutti pazzi? Sicuramente pazzi si diventa nel tentativo di far apprezzare al pubblico la propria arte, scaturita da pensieri così personali facenti parte dell’individuo stesso, dalla sua chimica, dalla sua storia personale e da un insieme di coincidenze così articolato da farti scoppiare la testa anche nel solo tentativo di immaginarlo.
Ed eccolo ancora, la miccia che fa esplodere la più cruciale delle questioni: l’apprezzamento, la ricerca di riscontri positivi di altri esseri umani, simbolo universale della trasformazione digitale, dove tutti hanno visibilità e dove ognuno ricerca disperatamente l’attenzione del proprio gruppo sociale. Un periodo storico in cui le patologie mentali sono in costante ascesa, dei cervelli esposti a scariche continue di dopamina date da gratificazioni immediate e brevi, ma costanti.
La dopamina nell’era digitale
Suddetto cervello, organo abituato per millenni a calma piatta, persino noia, e a piccoli episodi di felicità, che lo soddisfacevano, passato ora alla ricerca continua di stimoli e gratificazioni, un tossico di piccole emozioni e riconoscimenti virtuali.
Come si fa a trovare la forza di andare sempre contro corrente? Quella forza di ribellarti che ti spinge ad andare per la tua strada, senza bisogno di nessun altro?
Anni di schiaffi e pugni in faccia, nonostante evidenti traguardi raggiunti, mi hanno fatto chiudere in me stesso, a riccio. Anni di rifiuti, sebbene conditi da obiettivi raggiunti, mi hanno pian piano spinto verso il comportarmi nel modo che gli altri vogliono.
Ho trovato un lavoro rispettabile, cercato di mantenerlo attraverso l’uso di tutte le droghe che potevo perché annebbiarmi il cervello era l’unico scampo di una vita diventata senza obiettivi, senz’anima. Uguale tutti i dannati giorni. Ho guadagnato bene e speso tutto in aperitivi e bollette, come ti dicono che sia giusto che sia.
Non ho più scritto una parola che venisse da dentro di me, ma solo il necessario per guadagnare e fottere chiunque leggesse le mie cose, perché mi hanno insegnato che questo è rispettabile e questo fa contenti i genitori.
Il parametro di valutazione è “quanto guadagni?” oppure “ti pagano per fare questo?”
Oggi è forse il primo giorno in cui mi sono finalmente seduto ad ascoltare quel che ho dentro. E’ una sensazione liberatoria, nonostante possa distinguere chiaramente della ruggine dentro di me.
Il riconoscimento del problema è l’inizio della lotta. La prossima fase della mia vita è tutta ricerca, meditazione, mindfulness, allenamento fisico e mentale. Per cercare di spogliarmi della patina inquinante che la società mi ha buttato addosso negli ultimi anni, senza che me ne accorgessi. Mi sento debole, ma nello stesso tempo molto forte, canalizzare le energie non sarà facile, ma comunque necessario.
Aprirsi, per denudarsi e svelare chi siamo, soprattutto nei brutti aspetti, è liberatorio.